Io non sono uno che ama i cambiamenti. Mi spaventano un po’, mentre le cose che restano sempre uguali mi mettono sicurezza. Ad esempio, non mi piace quando devo lasciare un appartamento, perché non so come mi troverò nel nuovo, perché alla fine di quello vecchio conoscevo ogni angolo, ogni piccolo difetto, ogni imperfezione, e questo lo rendeva meravigliosamente mio.
Io non sono uno che ama i cambiamenti, eppure so che fanno parte della vita e li accetto, anche se non di buon grado, almeno inzialmente. Alla fine mi adatto, e trovo un modo per tirare avanti. Però ci metto un po’: ho bisogno di tempo, di calma; devo prendere confidenza col nuovo, e questo richiede un processo non banale, primi passi incerti, sguardi persi, serate passate a lanciare occhiate torve tutto intorno, con diffidenza.
Quando parlo di cambiamenti intendo tutti i tipi di cambiamenti, dall’appartamento a lavoro, fino alle relazioni. Ho già scritto qui di come sia complesso e misterioso per me il concetto di fine; qui invece mi concentro di più sui nuovi inizi, e in particolare su quelli che comportano una modifica radicale del mio spazio vitale in senso stretto, ossia dei luoghi in cui respiro e mi muovo.
Prendere confidenza con un luogo chiuso
E intendo in generale, quindi anche quando ad esempio vado in vacanza e affitto un Airbnb: la prima volta che ci entro sono guardingo, ci metto un po’ ad acclimatarmi. Di solito appoggio le cose un po’ a caso, senza convinzione, anzi quasi col timore di disturbare l’equilibrio preesistente al mio arrivo. Poi di solito mi siedo nella parte più anonima e isolata, come ad esempio una sedia vicino alla finestra. Eppure non guardo fuori, ma dentro: devo capire i muri e le distanze, devo vedere se posso fidarmi dell’armadio, se il frigorifero è mio amico oppure no. Respiro forte l’odore, che è la cosa alla quale mi abituo prima, in fondo perché è il mio naso che si abitua, senza che io possa farci nulla. Mi affaccio in bagno, lo squadro, accendo la luce e poi la spengo. Mi pare tutto ok, ma tornerò più tardi a controllare, banalmente perché non mi fido. Come un gatto, mi aggiro furtivo tra i mobili, alla ricerca di una sicurezza nascosta. Come un gatto, sono restio ai cambiamenti.
Col passare prima delle ore e poi dei giorni comincio a sentirmi più a mio agio: prendo possesso dell’armadio, appendo addirittura le camicie, inizio ad usare i fornelli, do un ordine (tutto mio) alle prime cose che metto in frigo. L’appartamento diventa così rifugio, luogo dove tornare ed essere accolti in silenzio. Le sedie piene di vestiti abbandonati l’uno sull’altro sono l’ultimo sigillo: ormai mi sento a casa. E quando parto, mi dispiace: devo dare un ultimo sguardo commosso all’arredamento, perché probabilmente non tornerò più. E chi s’è visto s’è visto.
Il tutto si amplifica quando si parla di un luogo dove dovrò vivere, almeno per un po’: i primi giorni sono confuso, la cosa che mi disturba di più è non trovare gli interruttori della luce quando è notte. Comincio a tastare quei muri freddi, che mi ispirano solo diffidenza, alla ricerca di un bottone che permetta di fare luce sul mistero della nuova casa. Piccoli drammi che si ripetono per un po’, e che si sommano ad altre difficoltà: non so dove appoggiare il portafogli, né dove sistemare lo zaino quando torno da lavoro. Niente è al suo posto perché niente ha un suo posto, finché non glielo do io. Mi faccio coraggio, giorno dopo giorno conquisto spazi, centimetri di quel posto ostile, fino a sentirlo sempre più mio. Riempio l’appartamento di oggetti che posseggo, i libri ad esempio sono un tassello fondamentale: appena riconosco i miei titoli, non mi sento più solo. Posso guardarli e dire: quegli oggetti sono qui, e pure dentro di me. Questo crea un collegamento tra me e il luogo dove sono. Poi porto una pianta, sperando che sopravviva alle mie dimenticanze. Poi una sedia, la chitarra che non suono mai, i caricatori del cellulare mezzi rotti, tutte le cianfrusaglie che quando cerco non trovo mai, e che poi spuntano fuori all’improvviso, nel gioco di una casa che finalmente sento mia.
Prendere confidenza con un luogo aperto
Qui la questione è diversa. Anzi, non è diversa: è amplificata. E molto dipende dal momento in cui ci arrivo: se succede di notte, non mi sento per niente a mio agio. Non colgo i contorni, non capisco le strade, ci sono parecchi punti ciechi, c’è il disagio di un luogo per lo più oscuro, dove arrivo e la prima cosa che faccio è dormire, senza neanche sapere bene dove sono. Se invece arrivo di giorno va già meglio: almeno so cosa ho intorno. Ma non basta.
Non sapere esattamente dove mi trovo e dove sono i luoghi fondamentali delle mie routine quotidiane mi disturba. Quando arrivo in un posto nuovo – diciamo una città nuova, per semplificare, voglio sapere quanto è distante il primo bar dal posto dove soggiorno o vivo, e vorrei pure capire esattamente dove si trova il supermercato più vicino. Prendere un caffè, fare la spesa: priorità. Ma anche i trasporti, la metro, il modo in cui posso muovermi, all’occorrenza scappare, se poi il frigo nell’appartamento non si rivela poi così simpatico come speravo. Come posso andarmene? Dove sta l’uscita di sicurezza della città? Chi ha le chiavi? Ho un bisogno impellente di sapere i confini, dove finisce la città, dove sta il cartello con il nome barrato. Se non tocco con mano le Colonne d’Ercole del luogo aperto, mi sento perso.
Per cominciare a familiarizzare bisogno almeno di qualche posto specifico per trovare l’orientamento, un monumento o una piazza, ma anche un’edicola o un bar. Così magari posso alzare la testa e dire: ok, quel posto sta sempre lì, non se ne va, resta e mi dà punti di riferimento, quindi è mio amico. Mica come il frigo. E poi, ancora: mi fa bene trovare un buon ristorante, un porto sicuro dove approdare nelle (tante) sere in cui mi non va di cucinare. Voglio sapere quale servizio di sharing arriva nel mio quartiere, se ce ne arriva uno. Voglio sapere tutto, pure dove sta la lavanderia, anche se non la uso.
Piano piano, strada dopo strada, negozio dopo negozio, familiarizzo pure col quartiere. E col passare del tempo esco, vado in giro, visito posti, prendo i mezzi, conosco gente che collego ai posti e che mi dà sicurezza. Anche solo la faccia di un cameriere: lo riconosco e dico, sì, so dove sono. So esattamente dove sono, e per questo mi sento bene. Anzi: ogni volta che scopro un nuovo angolo, un nuovo scorcio, un nuovo locale, una nuova via mi sento meglio. Il luogo mi appartiene sempre di più, mi affeziono, mi lego a lui, mi ci aggrappo. Mi immergo nella confidenza più totale.
Tornando a casa, vado a fare la spesa al solito supermercato, passando per le vie che conosco ormai come le mie tasche. Entro, lascio i vestiti sulla sedia, guardo il frigo: ormai siamo vecchi compagni di bevute. Stappo una birra e brindo a lui, e alla confidenza che ho preso con tutti i luoghi della mia vita. In attesa di conoscere i prossimi.
Salute!